In questo mondo dove tutto è pubblico, esibito come necessità, certificazione di esistenza, timbro di reputazione il privato è sempre più che privato privazione, isolamento dalla socialità eccessiva, con strumenti e modalità invadenti, sfacciati e spesso maleducati.
La normalità diventa un esercizio complicato tra i due estremi, acrobati di misura, giocolieri di parole senza le paillettes meme o i funerei auto-monologhi.
La normalità di essere imperfetto, fuori dai modelli che monetizzano l’esistenza spesso per mantenere quello stesso infelice e subìto modello.
La normalità di chi non vuole avere una opinione su tutto ma solo su quello che gli interessa capire, perché può esistere qualcosa che non interessa capire, approfondire, discutere, considerare.
La normalità di voler seguire l’apparentemente e inutile percorso di vita, di poterlo cambiare perché non si è sereni, perché anche se appare incomprensibile è l’unica strada che dia un senso alla propria vita.
La normalità di non pensare che ciò che si pensa debba plasmare il pensiero degli altri, che la propria esperienza sia il format perfetto per qualunque esistenza, che l’errore o il difetto siano concetti degli altri e mai i nostri.
La normalità di poter perdere tempo senza sentirsi in colpa per non aver aiutato l’umanità ad andare avanti (dove, poi).
La normalità del diritto di essere diversi anche in quegli aspetti non appariscenti e politicamente scorretti a camminare in quel ciglio della vita che ci fa rimanere in bilico in questo mondo così schizofrenico e categorico, equilibristi di umanità che vorrebbero solo stare sul prato ad occhi chiusi a farsi accarezzare dal sole, farsi sussurrare pensieri dal vento, godersi il paesaggio, senza necessariamente un motivo per doverlo fare.
Essere normali non è per questi tempi.